Arti e tecniche nel Novecento
Studi per Mario Costa
2017
a cura di V. Cuomo, I. Pelgreffi Kaiak Edizioni ISBN: 9788892649705
Il volume raccoglie quindici saggi sulle molteplici relazioni tra
le tecniche e le arti nel Novecento, a partire dal pensiero di
Mario Costa, in occasione dei suoi ottant'anni. Pioniere in Italia
degli studi di estetica dei media, nonché di quelli relativi alla
filosofia della tecnica, Mario Costa è stato professore ordinario
di Estetica all'Università di Salerno ed è noto a livello
internazionale soprattutto per il suo libro "Il sublime
tecnologico" (Salerno, 1990; Roma 1998).
Saggi di: Roberto Barbanti, Maurizio Bolognini, Vincenzo Cuomo,
Matteo D'Ambrosio, Diana Danelli, Paolo D'Angelo, Alice de
Carvalho Lino, Derrick de Kerkhove, Roberto Diodato, Filippo
Fimiani, Fred Forest, Fabio Galadini, Dario Giugliano, Giuseppe O.
Longo, Aldo Marroni, Carla Subrizi.
Arti e tecniche nel Novecento. Studi per Mario Costa,
Kaiak Edizioni, 2017, pp. 39-54
Le
mie macchine e il sublime tecnologico come
programma artistico
Maurizio Bolognini
"Penso
che una parte del mio lavoro possa essere ricondotta all'esperienza del sublime tecnologico, ma tenendo conto che si tratta pur sempre di
installazioni basate su un'attivazioneminimaeastrattadi
processi tecnologici, che danno luogo (come spiega Costa) a un sublime
“addomesticato”,cioè controllato, ma quindi (aggiungerei)in
una certa misura anche “critico”, in quanto attivato consapevolmente, e
“sperimentale”, piuttosto diverso dal sublime naturale teorizzato alla fine del
Settecento: un sublime monumentale come i fenomeni naturali da cui traeva
origine, e che poteva anche alludere a qualcosa di inconoscibile che sta dietro
all'oggetto, da esperire emotivamente in quanto situato oltre il linguaggio e la
rappresentazione simbolica.
Al
contrario, nel caso del sublime tecnologico e dell'arte generativa
sappiamo bene cosa si trova dietro all'oggetto: un software, cioè niente.
Mentre rimangono invece la percezione della nostra inadeguatezza nel
comprendere
quell'oggetto (indecifrabile e infinito), e il disorientamento che
questa esperienza può provocare."
All'origine
della nozione di sublime
tecnologico
–scriveva
Mario Costa nel 1998, riferendosi al lavoro teorico portato avanti
nel decennio precedente
–
c'era «la
consapevolezza, ormai netta, che l'irruzione e la pervasività
delle tecnologie costituiva il vero nuovo eccesso
del post-moderno».1
Le
tecnologie digitali, secondo Costa, stavano creando le condizioni per
un nuovo tipo di esperienza estetica
–
il sublime
tecnologico
–
che non aveva il carattere aleatorio e imprevedibile del sublime
naturale,
ma poteva invece essere prodotto in forme ripetibili e controllate.
Questo nella sua analisi avrebbe portato via via a un processo di
corrosione dell'arte e delle tradizionali categorie dell'estetica,
sostituite dal sublime tecnologico, e in questo quadro anche la
funzione dell'artista sembrava ridefinirsi:
la
de-soggettivazione e la de-simbolizzazione del prodotto, il lavoro
artistico come pura messa in forma dei nuovi significanti
tecnologici, la fine dello
stile
e la disumanizzazione dell'opera, il subentrare di un impersonale
soggetto epistemico a intenzionalità estetica al posto della
vecchia e antiquata personalità artistica, erano i postulati
fondamentali del sublime
tecnologico.2
La
questione su cui vorrei riflettere partendo da qui
–
e con riferimento alla mia esperienza artistica
–
è la possibilità che il sublime tecnologico
(una
nozione tra le più originali e interessanti per comprendere
l'arte degli ultimi decenni)
possa essere considerato ancora come
un programma
artistico
–sia
pure estremo –
invece
che parte di quel processo di corrosione e oltrepassamento dell'arte
attribuito da Costa alle stesse forme di produzione
socializzata del sublime.
Questo
contribuirebbe forse a rimuovere alcuni ostacoli alla comprensione
dell'arte neo-tecnologica, soprattutto oggi che la diffusione dei
nuovi media sta rendendo tutta l'arte postdigitale,3
e la
new
media art
ha ormai dovuto fare i conti con l'eterogeneità delle sue
diverse manifestazioni e con una persistente marginalità nel
sistema dell'arte. Mentre invece si sta affermando un tentativo
interessante di collocare almeno una parte dell'arte legata alle
tecnologie digitali all'interno di una prospettiva storica
ampia,
che comprenda tutta la produzione artistica del '900 che si è
confrontata con le macchine
e
con i sistemi
tecnici.4
Vorrei
accennare innanzitutto, brevemente, ad alcune mie installazioni (in
particolare alle Macchine
programmate e
alle installazioni interattive della serie SMS
Mediated Sublime)
in modo che sia chiaro sulla base di quali esperienze intendo
considerare qui la questione.
Macchine
programmate
Quando
ho iniziato a lavorare alla prime serie di Macchine
programmate,5
tra gli anni '80 e '90, ero attratto soprattutto dall’autosufficienza
della macchina e dall’inesauribilità dei processi che mi
consentiva di attivare. Programmavo decine di computer per generare
flussi di immagini in continua espansione e poi li lasciavo
funzionare all'infinito.
Di solito si trattava di grafismi che potevano estendersi indefinitamente,
inesauribili e con variazioni continue che li rendevano sempre diversi.
M. Bolognini, Installazione di Macchine
programmate, 1988-
Nel 1992 avevo anche
iniziato a lavorare alla serie dei Computer
sigillati.
Dopo averli programmati “sigillavo”
con del silicone tutte le prese
in modo che non potessero essere collegati né a un monitor né
ad altre periferiche.
I Computer
sigillati sono stati esposti in decine di mostre, in Europa e negli Stati
Uniti:
li programmavo,
li sigillavo e poi li lasciavo funzionare sparsi sul pavimento. Nelle
mie intenzioni lo spazio espositivo diventava una specie di “officina
metafisica” in cui le immagini venivano continuamente prodotte
ma senza poter mai diventare oggetti fisici. Alla
fine ho programmato in questo modo centinaia di macchine, molte
sigillate, altre collegate a schermi e videoproiettori. Alcune di
queste (come nella serie SMS
Mediated Sublime)
erano anche interattive e usavano la rete telefonica mobile per
consentire a chiunque di intervenire dal proprio telefono,
modificando in tempo reale alcune caratteristiche delle immagini.
M. Bolognini, Installazione di Macchine
programmate (serie Computer sigillati), Atelier de la
Lanterne, Nizza, Francia, 1997.
In
quel periodo facevo anche dei video (Più
tempo più spazio,
o Machine
Art)
in cui riprendevo centinaia di persone che disegnavano nell'aria, in
modo simile alle mie macchine. Come
ho sottolineato altre volte, non mi consideravo un artista che crea
certe immagini e nemmeno soltanto un artista concettuale, ma
piuttosto un artista che
–
delegando la propria azione al tempo infinito delle sue macchine
– poteva realizzare
immagini sconfinate, potenzialmente illimitate
nello spazio e nel tempo.Sia
la velocità di queste macchine sia la loro autosufficienza
evidenziavano
inoltre una separazione
e una sproporzione
tra l'artista e l'opera, che in quel momento era un aspetto su cui
riflettevo e che mi interessava. Così quando ho “scoperto”
Il
sublime tecnologico
di Mario Costa (nell'edizione pubblicata da Castelvecchi nel 1998),
mi sono reso conto che questa poteva essere la categoria più
interessante per definire quella sproporzione e separazione che
cercavo attraverso l'eccesso tecnologico. La
categoria del sublime consentiva come nessun'altra di trattare la
dismisura tra l'osservatore e lo “spettacolo” della
tecnologia, evocando una tensione tra finito e infinito; e consentiva
di ricondurre l'esperienza
estetica del non-simbolico
(anche se allora non avrei usato questa espressione) all'esperienza
di un eccesso destrutturante,
il cui carattere enigmatico veniva spiegato da Costa sottolineando
che «lo
stesso disfarsi della soggettività e lo stesso scivolamento
verso il nulla provocano di per sé un tipo particolare di
piacere: la minaccia proveniente dall'eccesso potrebbe essere vissuta
come una dissoluzione
immaginaria dell'io».6
Il
mio interesse era rivolto soprattutto al sublime tecnologico, mentre
la riflessione sull'oltrepassamento dell'arte mi sembrava secondaria.
Pensavo che l'arte si fosse talmente laicizzata da poter essere
considerata ormai come una irrinunciabile zona
franca
in cui era possibile in fondo sperimentare qualsiasi cosa: un'area di
ricerca più aperta dove
potevano trovare spazio progetti impraticabili
in altri contesti e prospettive ancora ignorate dal sapere
consolidato.7
Nell'analisi
di Costa, tuttavia, il sublime portava verso un superamento dell'arte
in quanto implicava una “sospensione del simbolico”
che lo rendeva indicibile.
E anche per questo l'“artista” avrebbe dovuto
trasformarsi in un
“ricercatore estetico”, cioè uno sperimentatore
capace di coniugare l'intenzionalità
estetica con la ricerca scientifica e tecnologica, attento
soprattutto alla fisiologia e alle funzionalità dei sistemi
tecnici impiegati.
Naturalmente
questo poteva essere interpretato in vari modi e penso che già
allora Mario Costa considerasse anche me un “ricercatore
estetico”. Tuttavia se avessi dovuto spiegare perché,
come artista, ero interessato alla tecnologia, avrei dato
anche allora due risposte diverse, che non coincidevano del tutto con
la definizione di ricercatore estetico. 1) Noi
siamo esseri tecnici immersi in un mondo che vive tecnicamente,
attraversati negli ultimi decenni da trasformazioni tecnologiche
epocali, che hanno prodotto un'inquietudine e una tensione verso il
futuro che l'arte non poteva non far propria, cercando di comprendere
in profondità il nuovo ambiente tecno-antropologico. In
questa prospettiva vedevo l'arte neo-tecnologica (almeno quella che
mi interessava, caratterizzata dall'attivazione minima e astratta di
processi tecnologici incontrollati) come una forma particolare di
arteconcettuale,
o tecno-concettuale,
che
assumeva le tecnologie non solo come medium, ma come proprio oggetto d'indagine. 2)
La
seconda risposta riguardava l'urgenza di una
sperimentazione estetica non-simbolica
(cioè non riferibile al linguaggio e alla cultura),
che
sentivo profondamente e che avrei potuto portare
alle estreme conseguenze solo attraverso l'attivazione di processi
tecnologici autosufficienti, cioè delegando
la mia azione artistica a delle macchine. Una
sperimentazione di questo tipo poteva rimandare alla cosiddetta
“crisi del simbolico” e alla “debolezza del
soggetto”, che non erano estranee al dibattito sulla
rivoluzione tecnologica in atto, e mi sembrava portassero dritte
anche a ciò che Mario Costa aveva indicato come
sublime tecnologico.
Il
punto che vorrei sottolineare è che questi due diversi modi di
considerare l'arte neo-tecnologica
–
come una forma di arte concettuale o post-concettuale (anche per una
tensione
verso l'auto-consapevolezza della ricerca artistica)
e come sperimentazione estetica del non-simbolico
–
possono integrarsi
e
sovrapporsi. [...]
Il
sublime come programma estetico-artistico
Nell'analisi
di Mario Costa la teoria del sublime rimanda, sul piano estetico e su
quello antropologico, ad altre due questioni: l'“oltrepassamento”
dell'arte e la “disumanizzazione tecnologica” dell'arte e
del mondo.
L'oltrepassamento
dell'arte viene analizzato a due livelli distinti.
Innanzitutto
si evidenzia un lungo processo di
de-soggettivazione
dell'arte (la sua conversione dal soggettivo all'oggettivo) che
rappresenta esso stesso una
sorta di
oltrepassamento dell'arte
e delle sue categorie (la personalità artistica, lo stile,
l'espressione ecc.) le cui cause vengono ricondotte non solo alle
tecnologie digitali ma, più generalmente
–
e in una prospettiva che comprende tutto il '900
e il modernismo delle avanguardie –,
alla progressiva “tecnologizzazione” del mondo, su cui
tornerò più avanti.
Su
un piano più specifico (che qui interessa di più in
quanto riferito unicamente alle tecnologie digitali), viene inoltre
sottolineata l'incompatibilità del sublime tecnologico, e
della sua produzione controllata, con la cultura e con il mondo
simbolico (e quindi con l'arte), spiegando «come
il sublime provochi uno scacco e una sospensione del simbolico e
come, pertanto, esso sia assolutamente indicibile;
nominare il sentimento del sublime significa già […]
passare dal sublime al simbolico».8
E ancora: «ogni
volta che un significante eccessivo viene riscritto e restituito in
termini umanocentrici, sia il mito, la religione, l'arte o la scienza
a fare questo, esso cessa di agire come sublime».9
Inoltre,«Il
sentimento del sublime […] pur essendo costituito da un
complesso gioco simbolico, può essere innescato soltanto da
ciò che è collocato al di qua di ogni funzione
simbolica, da ciò che non può in alcun modo essere
ricondotto a una qualunque misura antropocentrica».10
E infine:
sempre
il sublime
si genera da una crisi del simbolico indotta da qualcosa che non può
essere detta
e non può essere
messa-in-forma.
Condizione questa che non ha nulla
a che fare con l'opera d'arte, che si identifica sempre e comunque
con un universo già
detto
e già
formato.
Nessuna opera d'arte potrà dunque veramente costituire
l'origine e dare avvio a quel sentimento
del sublime
che solo nasce a partire dall'informe e dall'indicibile.11
Certamente
è difficile
non condividere queste osservazioni di Costa
sull'incompatibilità del sublime con la cultura e quindi in
una certa misura con l'arte. Tuttavia resta ancora una domanda a cui
bisogna rispondere: che succede allora quando un artista decide di
portare questa cosa che nasce “dall'informe e dall'indicibile”
(ma
che è “oggettivata”12
e prodotta in modo controllato)
in
una galleria d'arte? Evidentemente
– senza
volerne fare una questione nominalistica
–
in questo caso l'“arte” potrà non trovarsi nella
“cosa” ma consisterà nella decisione di esibirla e
nelle sue conseguenze. Questo significa che anche volendo assumere
che il sublime tecnologico non possa costituire un programma
artistico in sé, sarebbe difficile sostenere che non lo sia la
sua attivazione
in un contesto artistico.
Naturalmente
un programma
artistico realizzato attraverso la produzione tecnologica di eccessi
destrutturanti e fondato su un'estetica immateriale, non-simbolica,
fatta solo di significanti, comprenderà anche
l'auto-esclusione della soggettività dell'artista e quindi
(come anche per molta parte della produzione artistica contemporanea
non tecnologica) c'entrerà poco con
un modo di intendere l'arte e l'artisticità basato sulla
personalità e l'espressione dell'artista,
il/la quale tuttavia manterrà una visione
del mondo
e agirà all'interno di una dimensione “culturale”,
qualsiasi
cosa abbia deciso di fare,
compreso l'azzeramento della propria soggettività. Del resto, come spiegava Gregory
Bateson nel primo dei “cinque assiomi della
comunicazione umana”:13è
impossibile non comunicare,
perché si comunica anche attraverso l'assenza e il silenzio.
Se porto delle macchine funzionanti in uno spazio espositivo è
evidente che sto comunicando anche la mia volontà di essere
assente e la scelta di delegare l'azione artistica a delle macchine
(anche nell'arte non si sfugge al paradosso della comunicazione
mancata come atto comunicativo).
Su
un piano diverso la stessa questione dell'oltrepassamento dell'arte
potrebbe essere posta anche in termini più “sociologici”:
è
possibile ipotizzare un oltrepassamento dell'arte al di fuori del
sistema dell'arte?
Nel
1997, con Angelo Candiano (un altro artista a cui Mario Costa ha
dedicato alcune interessanti riflessioni14),
ci eravamo rivolti all'Ufficio
Internazionale Brevetti Manzoni & Manzoni (scelto per il nome)
per registrare
la proprietà del termine
Oltrearte.
Per alcuni anni abbiamo poi fatto “mostre” in cui
esponevamo la scritta Oltrearte
insieme con il brevetto, serigrafato su lastre di acciaio lucidato,
oppure contrassegnavamo oggetti di largo consumo che poi venivano
esposti in grandi centri commerciali. Alcune volte abbiamo anche
ceduto temporaneamente il diritto d'uso per una sola opera ad altri
artisti, come Daniel Rothbart, e non artisti, come Tullio Regge.15
Il brevetto Oltrearte
evidenziava una situazione paradossale in cui da una parte potevamo
sostenere la necessità di un oltrepassamento dell'arte e della
sua deriva commerciale ma dall'altra lo facevamo attraverso un
brevetto che era sia un'operazione “artistica” sia
l'attribuzione di un diritto di sfruttamento commerciale. Il progetto
Oltrearte
indicava in modo provocatorio la difficoltà e forse
l'inconsistenza di qualsiasi tentativo di superare una situazione in
cui l'arte
è anche “convenzione” e “sistema”.
Del
resto nello stesso lavoro di Costa sul sublime tecnologico c'è
una complessità che in alcuni passaggi consente di fare ancora
riferimento all'arte: «Con
la tecnica dunque, il sublime
cessa di appartenere soltanto alla natura e comincia realmente ad
appartenere anche all'“arte”».16
E come non condividere il riferimento a Ortega,17
che nel 1925 «per
la prima volta rilevava la tendenza alla “disumanizzazione”
dell'arte moderna
e metteva soprattutto in evidenza la totale e voluta inespressività
delle opere d'arte e degli artisti»18,
una tendenza alla purificazione
dell'arte attraverso l'eliminazione di ogni elemento umano:
«L'importante
è che esiste nel mondo l'indubitabile presenza d'una nuova
sensibilità estetica […] la tendenza
a disumanizzare l'arte […] non soltanto inumana per non
contenere cose umane, ma perché consiste principalmente in
questa attività 'disumanizzante' […] il piacere
estetico per l'artista nuovo deriva da questo trionfo sull'umano.»19
Mentre
ciò che secondo Costa manca all'analisi di Ortega è
«il
tentativo di comprendere le cause del fenomeno che descrive o, il che
è lo stesso, il non averlo saputo collegare […] con
quanto era avvenuto e stava avvenendo nel campo delle tecnologie.
Perché, non c'è dubbio, “disumanizzazione”
dell'arte e “tecnologizzazione” del mondo marciano di
pari passo e sono due facce dello stesso fenomeno.»20In
altre parole, l'inespressività dell'arte, la sua conversione
dal soggettivo all'oggettivo, la sua laicizzazione (che hanno
accompagnato ma anche preceduto l'arte neo-tecnologica),
corrispondono a una più generale laicizzazione del mondo e del
senso, che Costa attribuisce agli effetti dello sviluppo tecnologico.
A
questo egli aggiunge però un altro elemento, che ci riporta
alla seconda delle questioni indicate all'inizio: la
“disumanizzazione tecnologica” non investe solo il piano
estetico, in quanto “purificazione” dell'arte, ma anche
il piano antropologico, in quanto espropriazione
dell'umano da parte della tecnologia,
una tesi che viene ripresa nel suo libro più recente, Dopo
la tecnica:
La
dimostrazione che la tecnica sta lavorando alla realizzazione di un
nuovo livello evolutivo rispetto a quelli già raggiunti dalla
natura, sta poi nel fatto che essa è in grado di generare
elementi non presenti in natura, di manipolarla dall'interno per
ottenere fenomeni inediti ed estranei alla natura, la stessa nozione
di “materia” è in questione, la tecnica insomma si
sta preparando [...] a dar vita a un livello post-tecnologico nel
quale lo sviluppo non ha più bisogno né dei tecnici né
della tecnologia; l'epoca post-tecnologica è […] quella
nella quale dietro alla
tecnica non c'è più in alcun modo l'uomo, ma altra
tecnica
ed essa soltanto.21
Si
tratta di questioni che vanno oltre lo scopo di queste considerazioni
sul sublime come programma artistico. Mi limito a osservare che una
concezione della tecnica come ormai intrinseca a se stessa e nuovo
“terrificante” in grado di ridurci a una specie di
proprio servomeccanismo, può sembrare molto impegnativa
all'interno di una teoria estetico-artistica del sublime tecnologico
(se non altro perché gli artisti tecnologici, compreso chi
scrive, hanno quasi sempre manifestato un interesse positivo per le
tecnologie). Anche se questa concezione viene ricondotta da Costa
alla teoria kantiana del sublime: al
confronto tra la natura (in quanto “assolutamente grande”
il cui riconoscimento è all'origine del sentimento del sublime
naturale) e la tecnologia,
che
col
pericolo supremo della espropriazione radicale dell'umano, ha creato
un nuovo “terrificante”, e se è vero che «la
natura suscita soprattutto le idee del sublime nel suo
caos, nel suo maggiore e più selvaggio disordine e nella
devastazione»,22
è ugualmente vero che accanto al terrificante naturale bisogna
ora considerare il terrificante tecnologico.23
Se
prendo come riferimento concreto le mie installazioni (e solo quelle,
quindi senza alcuna pretesa di trarre conclusioni generalizzabili), non riesco a
vedere una relazione con la “terribilità” della tecnica. Nelle mie installazioni (in particolare quelle
riconducibili all'arte generativa e alla programmazione di
dispositivi digitali) vedo innanzitutto la possibilità di
delegare la mia azione artistica alla macchina, consentendomi di
protrarla per un tempo indefinito e superiore al mio (mi piace l'idea
di aver disegnato, con centinaia di macchine, immagini in grado di
coprire una parte non trascurabile della superficie terrestre). Poi,
nella generazione istantanea di queste “immagini” prive
di significato (flussi in espansione sempre diversi, non
memorizzabili, difficili da decodificare e comprendere) vedo un
eccesso destrutturante, una tensione tra finito e infinito e insieme
una dismisura tra l'artista e l'opera. Questo può valere per
gli stessi Computer
sigillati,
che qualcuno ha associato anche a un “sublime del vuoto”.24
Penso
che questo possa essere ricondotto all'esperienza del sublime
tecnologico, tenendo conto tuttavia che si tratta pur sempre di
installazioni basate su un'attivazione minimaeastratta
di processi tecnologici, che danno luogo (come spiega Costa) a un
sublime “addomesticato”,25
cioè controllato, ma quindi (aggiungerei)in
una certa misura anche “critico”, in quanto attivato
consapevolmente, e “sperimentale”, piuttosto diverso dal
sublime naturale teorizzato alla fine del Settecento: un sublime
monumentale come i fenomeni naturali da cui traeva origine, e che
poteva anche alludere a qualcosa di inconoscibile che sta dietro
all'oggetto, da esperire emotivamente in quanto situato oltre
il linguaggio e la rappresentazione simbolica.26
Al
contrario, nel caso del sublime tecnologico e dell'arte generativa
sappiamo bene cosa si trova dietro all'oggetto: un software, cioè
niente.
Mentre rimangono invece la percezione della nostra inadeguatezza nel
comprendere
quell'oggetto (indecifrabile e infinito), e il disorientamento che
questa esperienza può provocare.
Costa
analizza la natura di questo disorientamento proprio in rapporto
all'arte generativa e alle immagini di sintesi, che «esibiscono
nelle forme dell'intuizione sensibile la struttura e il
funzionamento logico-matematico dell'intelletto»
e «sono
una sorta di raffigurazione del pensiero strumentale.»27
Secondo Costa, dell'immagine sintetica:
non
può esserci mai vera comprensione poiché non si lascia
in alcun modo ridurre all'unità
e la sua forma
sfugge
a ogni delimitazione: con l'immagine sintetica l'immaginazione è
posta di fronte a un'apprensione
ad
infinitum
nel senso che il molteplice rappresentato tende potenzialmente
all'infinito: […] l'immaginazione cioè apprende
l'immagine sintetica ma non la comprende
per la tendenziale infinità della sua essenza.28
Si
determina quindi un distanziamento della ragione dal pensiero
strumentale e «la
ragione contempla l'oggettivazione alienata dell'intelletto».29
Tenendo
conto di queste considerazioni vorrei introdurre un ultimo punto
riguardante il sublime e l'interattività.
Sublime
tecnologico e interattività
Vorrei
partire da due constatazioni. 1) Il sentimento del sublime tende a
esaurirsi con la ripetizione dell'esperienza.30
Questo vale anche
per il sublime naturale (osservare il
deserto per la prima volta
o abitare nel compound di una società petrolifera non è
la stessa cosa),
ma mentre il sublime naturale è legato anche all'esperienza di
fenomeni inaspettati, il sublime tecnologico è controllato e
ripetibile, quindi tende a depotenziarsi. 2) Davanti a un flusso
generativo, l'esperienza sfuggente del sublime tecnologico è
diversa per l'artista e per il pubblico: lo spettatore può
osservare il risultato del processo generativo ma l'artista ha anche
modo di agire sul programma che l'ha attivato, sperimentando in tempo
reale la potenza del
proprio gesto continuamente
replicato e amplificato dalla macchina.
4 In
particolare A. Broeckmann, Machine
Art in the Twentieth Century,
MIT Press, Cambridge Ma 2016.
5 S.
Solimano (a cura di), Maurizio
Bolognini. L'infinito fuori controllo: Macchine Programmate
1990-2005,
Museo di Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova, 2005.
7 D.
Scudero, “Arte e tecnologie digitali in un dialogo con
Maurizio Bolognini”, Luxflux
Proto-type,
6, 2004; e in S. Lux, Arte
ipercontemporanea,
Gangemi, Roma 2006,
p. 390.
13 G.
Bateson,Verso
un'ecologia della mente,
Adelphi, Milano 1977.
14
M. Costa, “La
luce, il tempo, la carta sensibile”, in D. Scudero (a cura
di), Angelo
Candiano. Luce della complessità con paragrafi di fotosofia,
Gangemi Editore, Roma 2005.
15 Nel
1999 alcuni di questi lavori furono esposti al Palazzo Ducale di
Genova: R. Ferrari (a cura di),
Contemporanea-mente,
Leonardi V-Idea, Genova 1999.
17 J.
Ortega y Gasset, La
disumanizzazione dell'arte,
Sossella Editore, Roma 2005 (1925).
18 M.
Costa, “Maurizio Bolognini o dell'ascetismo tecnologico”,
in Aa.Vv, Maurizio
Bolognini. Infinito personale,
Edizioni Nuovi Strumenti, 2007, p. 5.
19 J.
Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell'arte, cit., p. 27.
20 M.
Costa, “Maurizio Bolognini o dell'ascetismo tecnologico”,
cit., p. 5. Una più ampia trattazione è in M. Costa,
La disumanizzazione tecnologica, Costa & Nolan, Milano
2007.
21 M.
Costa, Dopo
la tecnica,
Liguori, Napoli 2015,
pp. 86-7.
Sembra
interessante confrontare le tesi di Costa sul sublime (formulate già
alla metà degli anni '80) e poi sul mondo “post-tecnologico”
con quelle avanzate da un esponente del marxismo critico, Fredric
Jameson (Postmodernism,
Duke
University Press, Durham NC 1991), pensando non alle tecnologie
cognitive e al deep
learning,
ma ancora alla struttura economico-tecnologica del tardo-capitalismo
e al suo sviluppo globale, che avrebbe fatto sì che l'altro
rispetto alla società non sia più la natura come
per Burke (A
Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime
and Beautiful, 1757),
ma l'enorme concentrazione di forza lavoro immagazzinata
nelle macchine. Per questo secondo Jameson sarebbe il “sublime
tecnologico” o “sublime postmoderno” ciò
che nasce dal nuovo altro dalla natura e che rende impossibile
qualsiasi tentativo di pensare la totalità del “sistema
mondiale” contemporaneo, enorme e minaccioso quanto la natura
per Burke.
22
I. Kant, Critica
del Giudizio;
Laterza, Bari 1970, p. 93.
24 Benjamin
Garfield in una tesi di dottorato poi pubblicata da Palgrave
Macmillan:The
Cyborg Subject. Parallax Realities, Functions of Consciousness and
the Void of Subjectivity,
University of Wolverhampton, 2014, pp. 74-5: «Questo
limite della coscienza sul confine del principio antropico è
evidente nella serie Computer
sigillati (1992),
descritta come uno sviluppo chiave nella software art. La completa
inaccessibilità dell'immensa quantità di immagini
create dall'opera evoca una sublimità tecnologica del vuoto.»
Sulla “poetica del vuoto” nell'arte tecnologica si veda
V. Cuomo, Eccitazioni
mediali,
Edizioni Kaiak, s.l. 2014, pp. 146-157.
25 M.
Costa, Il
sublime tecnologico,
cit., pp.
64, 73, 78.
26 Si
veda l'analisi
della teoria kantiana del sublime
in Slavoj
Žižek,
The
Sublime Object of Ideology,
Verso, London 1989, pp. 202-7.
30 Su
questo si
sofferma D.
E. Nye,American
Technological Sublime,
MIT Press, Cambridge Ma 1994, attribuendo al “sublime tecnologico americano”
il ruolo socialmente unificante svolto nelle società tradizionali dai
fenomeni religiosi: interessante la
constatazione che solo il continuo sviluppo tecnologico ha potuto
alimentare il sentimento del sublime.
31 J.
Rancière, The
Future of the Image,
Verso, London 2007.
32 M.
Bolognini, “The
SMSMS Project: Collective Intelligence Machines in the Digital
City”,
Leonardo, 37/2,
MIT Press, 2004, pp. 147-149.
Si trattava quasi sempre di grandi scarabocchi e grovigli (il gesto
estetico più elementare, legato anche all'idea di movimento e di infinito)
di cui il pubblico poteva cambiare istantaneamente alcune caratteristiche
(per es. traiettorie più o meno curve o sottili o tracciate con un raggio
più ampio ecc.).
33Queste
installazioni usavano tecniche prese dall'e-democracy,
di cui mi ero occupato negli anni precedenti (M. Bolognini,
Democrazia
elettronica,
Carocci, Roma 2001), ed erano pensate come una forma di democrazia
procedurale,
basata su flussi di comunicazione capaci di favorire la convergenza
delle scelte attraverso 1) la continua revisione delle decisioni
individuali (ogni spettatore poteva inviare in qualsiasi momento
nuove istruzioni alla macchina che sostituivano le proprie
precedenti istruzioni), 2) il “feedback” (chiunque
poteva vedere istantaneamente le immagini prodotte seguendo
le proprie indicazioni)
e 3) la “risposta statistica” (subito dopo
ripartiva sempre un nuovo ciclo di immagini che teneva conto delle
indicazioni di tutti).
34M.
Bolognini, “De l'interaction à la démocratie.
Vers un art génératif post-digital”, in Aa.Vv.,
Ethique,
esthétique, communication technologique,
Edition L'Harmattan. Paris 2011, p. 239. Un altro lavoro in cui
avevo usato il decision-making
interattivo è
Interactive
Collective Blue
(ICB),
un'installazione realizzata a Nizza nel 2006 pensando
all'International
Klein Blue (IKB).
In questo caso alla rete telefonica era stata collegata una macchina
programmata per generare variazioni di luce blu (usando il modello
RGB, che produce qualsiasi sfumatura di colore attraverso la
miscelazione additiva di rosso, verde e blu). I membri del pubblico
sono intervenuti dal proprio telefono in centinaia di round,
modificando continuamente le tre componenti del colore blu
dell’ambiente secondo le proprie preferenze, fino a
raggiungere un certo grado di consenso su una serie ristretta di
“blu democratici”. Aa.Vv,
Maurizio
Bolognini. Infinito personale,
Edizioni Nuovi Strumenti, s.l. 2007, p. 58.