da
Democrazia elettronica, Carocci, Roma
2001, cap. 2:
2.7.
Soggetti
pericolanti.
Il nostro interesse per lo sviluppo delle tecnologie digitali e per la prevenzione delle forme di discriminazione che potranno derivarne,
discende innanzitutto dalla convinzione che l’accesso telematico universale
possa contribuire alla democrazia. Ma poi, su un altro versante, c’è
il problema dei contenuti. La rete resta democratica anche se America
On-Line compera Time-Warner? Anche se continui processi di
concentrazione fanno sì che poche compagnie di
telecomunicazioni, news
e entertainment
controllino ormai, anche attraverso la comunicazione on-line, gran
parte dei consumi culturali del pianeta? Anche se il rumore, il
conformismo, il tentativo di farne una televisione interattiva15,
sembrano pronti a invadere ogni angolo del sistema telematico mondiale? Il
problema è che, sebbene il web e la comunicazione molti-a-molti, grazie alla
loro struttura, potranno sfuggire al controllo delle concentrazioni
monopolistiche, consentendo a tutti di continuare a riversare i propri
contenuti, la fruizione potrebbe diventare sempre più selettiva [...] da una parte i punti nodali del sistema, dove si incrocia
gran parte del traffico prodotto dalle connessioni ipertestuali,
dall’altra i fruitori. Questo riguarda anche i processi
democratici: dar voce a tutti è solo metà del problema,
l’altra metà consiste nello strutturare la comunicazione
in modo da dare a tutti ragionevoli possibilità di ascolto.
Una
questione analoga è quella legata all’overdose
di informazioni, che potrebbe
non solo rendere indistinguibili le informazioni vere e false16,
i fatti accaduti e quelli simulati, ma annullare dentro l’eccesso
tecnologico digitale qualsiasi aspirazione a una rappresentazione
razionale del mondo, lasciandoci come residua possibilità solo
la deriva
nell’instabilità dello spazio elettronico17.
Che l’io postmoderno sia un edificio pericolante è quasi
un luogo comune. A metterlo in difficoltà sarebbe il confronto
con una complessità insostenibile,
una situazione in cui l’ordine delle cose dipende sempre meno
dai soggetti e sempre più da una rete di inesauribili
“relazioni” – regole operative, assetti
organizzativi, modi di funzionamento, tecnologie – ormai così
integrata da rendere inverosimile – nella politica18
come nell’arte19
– qualsiasi rappresentazione del mondo fondata sul primato del
soggetto e della coscienza. Derrick de Kerckhove ha provato a fare
una previsione su questo punto: ci sarà «più
mente e meno razionalità» nel nostro futuro e questa è
una condizione che dovremo imparare «a tollerare e a
regolare»20.
Il
rapporto tra le tecnologie digitali e la debolezza del soggetto nella
condizione postmoderna ha ispirato riflessioni molto diverse: lo
scenario apocalittico di chi vede nella virtualità un trompe
l’oeil
destinato a prevalere sul principio di realtà, riducendo
l’esperienza a interattività e la memoria all’uso
di banche dati21;
la
prospettiva, ancora umanistica,
di
chi considera le
neotecnologie come presupposto di una nuova fase di civilizzazione,
basata su forme inedite di cooperazione e intelligenza collettiva22;
la
denuncia della crisi della razionalità e del controllo
politico sui fatti economici e sociali23;
o, al contrario, la rappresentazione di questo stesso esito non come
una disfatta ma come manifestazione di un’organizzazione umana
di livello superiore, “superorganismo” capace di sfuggire
al gioco delle volontà individuali24.
Si tratta di analisi cui non si può rendere giustizia in un
breve resoconto. Ma non possiamo non osservare che in molte di esse
c’è un eccesso di retorica che, quasi indipendentemente
dal contenuto (industrializzazione delle coscienze o neodemocrazia
sul web, superorganismo o intelligenza collettiva) rischia solo di
fornire un alibi alla mancanza di iniziative e di sperimentazione. A
questo proposito può essere interessante notare che mentre i
sociologi estetizzano la debolezza del soggetto, alcuni artisti si
sono messi a produrre software e a fare esperimenti con le tecnologie
di comunicazione (al punto che il confine tra arte e scienza perde in
alcuni casi di significato)25:
si vedrà chi aveva ragione.
Considerazioni
analoghe valgono per la riflessione sull’intelligenza
collettiva.
2.8.
Intelligenza
collettiva/connettiva.
Pierre
Lévy ha scritto che ciò che caratterizza la
cybercultura è l’indeterminatezza di qualsiasi senso
globale: «la mia ipotesi è che la cybercultura restauri
la compresenza dei messaggi col proprio contesto tipica delle società
orali, ma su un’altra scala, in tutt’altro orizzonte. La
nuova universalità non dipende più
dall’autosufficienza dei testi, dalla stabilità e
indipendenza dei significati. Si costruisce e si estende grazie
all’interconnessione
dei messaggi tra loro, al loro perenne riferirsi a comunità
virtuali in divenire che vi infondono molteplici sensi in perpetuo
rinnovamento»26.
Questo accento sull’interconnessione caratterizza anche
la definizione di intelligenza collettiva fornita da Lévy:
«un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente
valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione
effettiva delle competenze», attraverso «dispositivi
[...] che consentano ai collettivi umani di inventare e esprimere di
continuo enunciati complessi»27.
Nella
sua analisi, quasi parallela,
Derrick
de Kerckhove
osserva che l’associazionismo in rete non crea soltanto un
nuovo tipo di interconnessione ma fa qualcosa di più: dà
origine a un soggetto
connettivo
e a pratiche di intelligenza
connettiva
(termine prestato dall’artista australiano Ross Harly)28.
Pur essendo molto simile a quello proposto da Lévy, il
concetto di intelligenza connettiva ha implicazioni interessanti per
il fatto di partire dal basso, dalla dimensione concreta dei processi
di cooperazione: non si limita a porre l’accento
sull’associazionismo on-line o sulla memoria continuamente
riscrivibile del web (né lascia credere che, al contrario
dell’intelligenza personale, l’intelligenza collettiva
non sia faticosa
o non dipenda anche dalle attitudini dei soggetti che la praticano).
L’intelligenza connettiva può essere vista come una
forma di organizzazione dell’intelligenza collettiva, il suo
processo
e allo stesso tempo il suo galateo29,
l’insieme delle regole che possono consentire di muoversi nel
flusso delle interazioni.
Questo
rimette al centro la questione delle tecniche di comunicazione. Si
può pensare collettivamente con l’aiuto di macchine
elettroniche? È possibile mettere in sinergia memoria,
intelligenza, immaginazione? E, soprattutto, si può farlo
sulla base delle attuali tecniche di comunicazione mediata da
computer? Possiamo realisticamente ipotizzare di dar vita a forme,
per quanto modeste, di intelligenza collettiva e distribuita
disponendo di una tecnologia come le mailing list o i forum
interattivi? O non sarà come interrogarsi sull’uso del
fax avendo davanti il pantelegrafo dell’abate Caselli?
Uno
scrive, l’altro legge, aggiunge qualcosa, quindi interviene un
terzo, poi un quarto... Ma le cose non sono così semplici. Ciò
che in realtà accade usando gli attuali strumenti di
conferenza asincrona è che, in breve tempo, l’informazione
diventa ridondante e anche i contenuti più interessanti
finiscono per perdersi dentro un eccesso di ripetizioni, monologhi,
messaggi off-topic.
Il problema, ben al di là dei rischi di manipolazione o di
perdita del controllo legati all’instabilità e
all’interdipendenza dei significati nello spazio
elettronico, riguarda semplicemente l’impraticabilità di
processi di comunicazione sufficientemente complessi, come sono ad
esempio quelli necessari al dibattito politico. Nei newsgroup, nei
forum e nelle liste di discussione, la struttura del discorso è
troppo elementare e l’interattività è gestita da
meccanismi laboriosi e poco efficaci: quando si parla di intelligenza
collettiva, una domanda che non dovrebbe essere elusa riguarda le
caratteristiche dei metodi usati per accelerare i pensieri di un
collettivo e per favorirne la performance.
Il
concetto di intelligenza collettiva ha avuto grande fortuna dopo la
pubblicazione dell’omonimo libro di Pierre Lévy. Ma è
stato usato molto tempo prima (e in termini meno “provvidenziali”)
nell’ambito della ricerca sulle tecniche di comunicazione
strutturata come il metodo Delphi, a cui è dedicata gran parte
di questo libro. Venticinque anni fa Linstone e Turoff si chiedevano:
«È possibile, attraverso comunicazioni di gruppo
strutturate, creare qualche tipo di intelligenza collettiva? In altre
parole, come possiamo affermare che i risultati e le considerazioni
emerse da un processo Delphi siano superiori a quelli prodotti da
singoli esperti o dai partecipanti a comunicazioni di gruppo non
strutturate?»30. Con
lo sviluppo del web queste domande assumono un significato più
ampio, così come le stesse potenzialità del metodo
Delphi, nato con un principale obiettivo: avvantaggiare la
performance del gruppo rispetto a quella dei singoli partecipanti, attraverso un
processo di comunicazione «che sia efficace nel consentire a un gruppo di
individui nel suo insieme di affrontare un problema
complesso»......