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    Democrazia elettronica
    2001
    164 pp., cm. 22
    Author: Maurizio Bolognini
    Language: Italiano
    Publisher: Carocci Editore, Roma
    ISBN: 88-430-2035-8

    estratti




Il Sole-24 Ore/Guida agli Enti Locali, 3, 2002:
"Uno stimolo alla riflessione, ma anche alla progettualità, ci viene dal volume di Maurizio Bolognini, Democrazia elettronica, il quale traccia un quadro esauriente della tematica, proponendo una ricetta che potrebbe consentire di superare i limiti delle esperienze sin qui compiute. [...] il libro di Bolognini cerca di organizzare una risposta il più possibile lucida ed esaustiva, ripercorrendo la storia dei molti tentativi intrapresi in tutto il mondo, soprattutto a livello di governo locale. [...] La ricetta proposta cerca di porre rimedio alle carenze che hanno reso sino ad oggi impraticabile l’e-democracy come seria alternativa ai processi istituzionali noti, grazie a una tecnica di comunicazione di gruppo - il metodo Delphi - in grado di strutturare l’interazione tra i partecipanti (politici, amministratori, esperti, cittadini) per rendere il processo decisionale più aperto al contributo esterno di soggetti diversi. Il metodo Delphi viene da tempo usato per elaborare previsioni in campi specifici, tramite la ciclica consultazione di un panel di esperti, ciascuno dei quali viene messo a confronto con le opinioni altrui, fino a che i diversi punti di vista non convergono in un’unica direzione. Trasponendo il metodo dal campo delle previsioni a quello delle decisioni, e lasciando giustamente da parte utopiche riedizioni dell’agora ateniese, si considera pragmaticamente come in molti casi sia già oggi possibile organizzare processi decisionali in parte assistiti dalle tecnologie."


Rivista italiana di scienza politica
, Il Mulino, 1, 2003:

"La letteratura e il dibattito intellettuale ci hanno spesso consegnato astratte apologie della democrazia elettronica. Apologie venate di intellettualismo, estranee a qualsiasi verifica empirica, prodotti di un ottimismo della ragione suggestivo ma inadeguato a misurarsi con la prosaicità, talvolta arida, di dati ed esperienze da acquisire. Tuttavia, di fronte al reale sviluppo delle tecnologie telematiche si pone la necessità di una verifica pratica. La ricerca di Bolognini cerca di ricomporre la divaricazione tra speculazione teorica e prassi sviluppando una trama interdisciplinare in cui scienza politica, estetica, semiologia e informatica possano dialogare." 


Statistica & Società 1/2, 2002: 


da Democrazia elettronica, Carocci, Roma 2001, cap. 2:

 

 

2.7. Soggetti pericolanti. Il nostro interesse per lo sviluppo delle tecnologie digitali e per la prevenzione delle forme di discriminazione che potranno derivarne, discende innanzitutto dalla convinzione che l’accesso telematico universale possa contribuire alla democrazia. Ma poi, su un altro versante, c’è il problema dei contenuti. La rete resta democratica anche se America On-Line compera Time-Warner? Anche se continui processi di concentrazione fanno sì che poche compagnie di telecomunicazioni, news e entertainment controllino ormai, anche attraverso la comunicazione on-line, gran parte dei consumi culturali del pianeta? Anche se il rumore, il conformismo, il tentativo di farne una televisione interattiva15, sembrano pronti a invadere ogni angolo del sistema telematico mondiale? Il problema è che, sebbene il web e la comunicazione molti-a-molti, grazie alla loro struttura, potranno sfuggire al controllo delle concentrazioni monopolistiche, consentendo a tutti di continuare a riversare i propri contenuti, la fruizione potrebbe diventare sempre più selettiva [...] da una parte i punti nodali del sistema, dove si incrocia gran parte del traffico prodotto dalle connessioni ipertestuali, dall’altra i fruitori. Questo riguarda anche i processi democratici: dar voce a tutti è solo metà del problema, l’altra metà consiste nello strutturare la comunicazione in modo da dare a tutti ragionevoli possibilità di ascolto.

Una questione analoga è quella legata all’overdose di informazioni, che potrebbe non solo rendere indistinguibili le informazioni vere e false16, i fatti accaduti e quelli simulati, ma annullare dentro l’eccesso tecnologico digitale qualsiasi aspirazione a una rappresentazione razionale del mondo, lasciandoci come residua possibilità solo la deriva nell’instabilità dello spazio elettronico17. Che l’io postmoderno sia un edificio pericolante è quasi un luogo comune. A metterlo in difficoltà sarebbe il confronto con una complessità insostenibile, una situazione in cui l’ordine delle cose dipende sempre meno dai soggetti e sempre più da una rete di inesauribili “relazioni” – regole operative, assetti organizzativi, modi di funzionamento, tecnologie – ormai così integrata da rendere inverosimile – nella politica18 come nell’arte19 – qualsiasi rappresentazione del mondo fondata sul primato del soggetto e della coscienza. Derrick de Kerckhove ha provato a fare una previsione su questo punto: ci sarà «più mente e meno razionalità» nel nostro futuro e questa è una condizione che dovremo imparare «a tollerare e a regolare»20.

Il rapporto tra le tecnologie digitali e la debolezza del soggetto nella condizione postmoderna ha ispirato riflessioni molto diverse: lo scenario apocalittico di chi vede nella virtualità un trompe l’oeil destinato a prevalere sul principio di realtà, riducendo l’esperienza a interattività e la memoria all’uso di banche dati21; la prospettiva, ancora umanistica, di chi considera le neotecnologie come presupposto di una nuova fase di civilizzazione, basata su forme inedite di cooperazione e intelligenza collettiva22; la denuncia della crisi della razionalità e del controllo politico sui fatti economici e sociali23; o, al contrario, la rappresentazione di questo stesso esito non come una disfatta ma come manifestazione di un’organizzazione umana di livello superiore, “superorganismo” capace di sfuggire al gioco delle volontà individuali24. Si tratta di analisi cui non si può rendere giustizia in un breve resoconto. Ma non possiamo non osservare che in molte di esse c’è un eccesso di retorica che, quasi indipendentemente dal contenuto (industrializzazione delle coscienze o neodemocrazia sul web, superorganismo o intelligenza collettiva) rischia solo di fornire un alibi alla mancanza di iniziative e di sperimentazione. A questo proposito può essere interessante notare che mentre i sociologi estetizzano la debolezza del soggetto, alcuni artisti si sono messi a produrre software e a fare esperimenti con le tecnologie di comunicazione (al punto che il confine tra arte e scienza perde in alcuni casi di significato)25: si vedrà chi aveva ragione.

 Considerazioni analoghe valgono per la riflessione sull’intelligenza collettiva.

2.8. Intelligenza collettiva/connettiva. Pierre Lévy ha scritto che ciò che caratterizza la cybercultura è l’indeterminatezza di qualsiasi senso globale: «la mia ipotesi è che la cybercultura restauri la compresenza dei messaggi col proprio contesto tipica delle società orali, ma su un’altra scala, in tutt’altro orizzonte. La nuova universalità non dipende più dall’auto­sufficienza dei testi, dalla stabilità e indipendenza dei significati. Si costruisce e si estende grazie all’interconnessione dei messaggi tra loro, al loro perenne riferirsi a comunità virtuali in divenire che vi infondono molteplici sensi in perpetuo rinnovamento»26. Questo accento sull’interconnessione caratterizza anche la definizione di intelligenza collettiva fornita da Lévy: «un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze», attraverso «dispositivi [...] che consentano ai collettivi umani di inventare e esprimere di continuo enunciati complessi»27.

Nella sua analisi, quasi parallela, Derrick de Kerckhove osserva che l’associazionismo in rete non crea soltanto un nuovo tipo di interconnessione ma fa qualcosa di più: dà origine a un soggetto connettivo e a pratiche di intelligenza connettiva (termine prestato dall’artista australiano Ross Harly)28. Pur essendo molto simile a quello proposto da Lévy, il concetto di intelligenza connettiva ha implicazioni interessanti per il fatto di partire dal basso, dalla dimensione concreta dei processi di cooperazione: non si limita a porre l’accento sull’associazionismo on-line o sulla memoria continuamente riscrivibile del web (né lascia credere che, al contrario dell’intelligenza personale, l’intelligenza collettiva non sia faticosa o non dipenda anche dalle attitudini dei soggetti che la praticano). L’intelligenza connettiva può essere vista come una forma di organizzazione dell’intelligenza collettiva, il suo processo e allo stesso tempo il suo galateo29, l’insieme delle regole che possono consentire di muoversi nel flusso delle interazioni.

Questo rimette al centro la questione delle tecniche di comunicazione. Si può pensare collettivamente con l’aiuto di macchine elettroniche? È possibile mettere in sinergia memoria, intelligenza, immaginazione? E, soprattutto, si può farlo sulla base delle attuali tecniche di comunicazione mediata da computer? Possiamo realisticamente ipotizzare di dar vita a forme, per quanto modeste, di intelligenza collettiva e distribuita disponendo di una tecnologia come le mailing list o i forum interattivi? O non sarà come interrogarsi sull’uso del fax avendo davanti il pantelegrafo dell’abate Caselli?

Uno scrive, l’altro legge, aggiunge qualcosa, quindi interviene un terzo, poi un quarto... Ma le cose non sono così semplici. Ciò che in realtà accade usando gli attuali strumenti di conferenza asincrona è che, in breve tempo, l’informazione diventa ridondante e anche i contenuti più interessanti finiscono per perdersi dentro un eccesso di ripetizioni, monologhi, messaggi off-topic. Il problema, ben al di là dei rischi di manipolazione o di perdita del controllo legati all’instabilità e all’interdipendenza dei significati nello spazio elettronico, riguarda semplicemente l’impraticabilità di processi di comunicazione sufficientemente complessi, come sono ad esempio quelli necessari al dibattito politico. Nei newsgroup, nei forum e nelle liste di discussione, la struttura del discorso è troppo elementare e l’interattività è gestita da meccanismi laboriosi e poco efficaci: quando si parla di intelligenza collettiva, una domanda che non dovrebbe essere elusa riguarda le caratteristiche dei metodi usati per accelerare i pensieri di un collettivo e per favorirne la performance.

Il concetto di intelligenza collettiva ha avuto grande fortuna dopo la pubblicazione dell’omonimo libro di Pierre Lévy. Ma è stato usato molto tempo prima (e in termini meno “provvidenziali”) nell’ambito della ricerca sulle tecniche di comunicazione strutturata come il metodo Delphi, a cui è dedicata gran parte di questo libro. Venticinque anni fa Linstone e Turoff si chiedevano: «È possibile, attraverso comunicazioni di gruppo strutturate, creare qualche tipo di intelligenza collettiva? In altre parole, come possiamo affermare che i risultati e le considerazioni emerse da un processo Delphi siano superiori a quelli prodotti da singoli esperti o dai partecipanti a comunicazioni di gruppo non strutturate?»
30. Con lo sviluppo del web queste domande assumono un significato più ampio, così come le stesse potenzialità del metodo Delphi, nato con un principale obiettivo: avvantaggiare la performance del gruppo rispetto a quella dei singoli partecipanti, attraverso un processo di comunicazione «che sia efficace nel consentire a un gruppo di individui nel suo insieme di affrontare un problema complesso»......



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